Tania Lombrozo insegna psicologia all’Università della California ed è vegan, la sua voce è adatta, quindi, a descrivere l’atteggiamento mentale che rende facilissimo – a chi lo ha scelto per ragioni etiche-  il non mangiare cibi animali e, aspetto altrettanto importante, il non desiderare più di farlo. E, al contrario, ‘sognare’ e pregustare gli alimenti di origine vegetale preferiti. 
Lombrozo illustra la sua personale progressione da onnivora a ‘erbivora’, facendo ricorso anche alla psicologia del cibo.
‘Diamo per scontata, la distinzione tra ‘alimento’ e ‘non alimento, cioè tra commestibile e non commestibile’, spiega la studiosa: un adulto del nostro tempo può automaticamente distinguere i cereali da colazione, e metterli tra gli edibili, dalle riviste, che non lo sono.
Non era così facile per i nostri antenati, il cibo allora non aveva etichette. 
La nostra specie è una specie ‘generalista’, e si adatta a consumare un’ampia varietà di alimenti: scegliere come nutrirsi è una decisione indotta principalmente dall’esperienza. Gli esseri umani - a differenza dei koala, per esempio, che vengono al mondo con una passione perpetua per l’eucalipto - nascono con preferenze alimentari non formate. E la nostra dieta è frutto dell’esperienza accumulata da coloro che ci circondano: il bambino, come l’animale, viene guidato dagli adulti, in una sorta di ‘tramandamento sociale’ di ciò che deve essere considerato cibo.   
Nei confronti della carne – chiarisce Lombrozo – gli umani sono conservatori. La regola è non mangiare quello che non vedi gli altri mangiare. Il risultato è che gli americani non considerano i cani e i gatti come commestibili, mentre altri animali – non meno senzienti – come i maiali e le mucche popolano tante case, ma serviti a tavola. Molti statunitensi arricciano il naso al pensiero di mangiare delle orecchie ma queste, insieme al cervello e alla lingua, sono nel ripieno dei tacos che si trovano dai venditori ambulanti in Messico. In sostanza, se un animale o un derivato animale è considerato ‘tradizionalmente’ non commestibile, il pensiero di mangiarlo ci disgusta: un potenziale cibo diventa cosi  un non-cibo. Trovare un sasso nell’insalata non ci fa schifo, lo scansiamo e fine. Trovarvi uno scarafaggio ripugna un onnivoro, anche se è potenzialmente un alimento, perché la nostra tradizione lo considera un non-cibo.
 
L’esperienza di Lombrozo - che condivido in pieno, in quanto anche a me è accaduta la stessa cosa - è che, al diventare vegetariana, alcuni degli elementi prima considerati cibo, sono diventati per lei non-cibo. L’idea di mangiare carne è diventata disgustosa, e la reazione ad un pezzo di pollo accidentalmente caduto nell’insalata non era diversa da quella di un onnivoro che vi trova uno scarafaggio.  La reazione è comune. Ed è, anche in base ad uno studio dell’Università della Pennsylvania, proprio la scelta etica a governare un senso ‘indotto’ di disgusto per la carne. Quando la studiosa è diventata vegan, qualche le categorie di cibo e non-cibo si sono modificate di nuovo. Con la scoperta della ampia e diversa classe di alimenti ‘commestibili’ perché non animali, altri – come il latte e le uova -sono andati a finire nella lista nera, con il pollo e gli scarafaggi. Senza nessun rimpianto, né desiderio da combattere, sono semplicemente diventati non-cibo e sono spariti dalla lista della spesa come dai sogni gastronomici. Il nostro cervello ci aiuta, con i suoi automatismi.
Nessuna scusa, cambiare menu è un gioco da ragazzi, se ci crediamo davvero.
 
paola segurini